Mozzo/Resistenza: “LA GRANDE FUGA DAL CAMPO P.G.62” di Luigi Rota (1a parte)


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Ricordi di una giovinezza vissuta in tempo di guerra

8 SETTEMBRE 1943—ARMISTIZIO- dissoluzione dell’esercito italiano rimasto senza Capi e direttive; e fu l’inizio della RESISTENZA
Il Capo di governo Maresciallo Pietro Badoglio, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane.
La richiesta è stata accolta.
Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.
Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.

 
LA GRANDE FUGA DAL CAMPO
Nel campo di concentramento militare di Grumello al Piano (denominato P.G.62 ) furono internati tra il maggio 1941 e l’8 sett. 1943 migliaia di prigionieri militari che combatterono contro le nostre truppe sui vari fronti di guerra, Africa, Grecia, Albania. La maggioranza di questi uomini erano, slavi, greci , albanesi, sudafricani. Il Campo fino al mattino del 9 sett. era sotto controllo dell’esercito italiano. Perciò furono i militari di guardia italiani ad aprire i cancelli e dare la libertà. Ironia della sorte,non tutti evasero, alcuni preferirono rimanere, pochi giorni dopo il Campo fu gestito dai nostri ex alleati tedeschi aiutati dai brigatisti neri, che internarono civili e non aderenti alla Repubblica di Salò, partigiani e molti prigionieri evasi, catturati sui monti, che rimasero nel “ Campo” fino al 25 aprile 1945, il giorno della “liberazione”.
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Avevo 11 anni nel 43 quando vennero aperti i cancelli di quel campo di concentramento. Impressionante fu per me quel giorno vedere tutti questi uomini con un sacco a spalla, incamminati sulle strade polverose del nostro territorio. Da dove vengono, dove vanno? Comunque i tedeschi misero subito in atto un piano di occupazione, dando la caccia ai prigionieri fuggiti dalla Grumellina .
Tanti di questi uomini si sparpagliavano nelle cascine del nostro territorio, mentre altri raggiungevano la Valle Brembana e Val Taleggio unendosi ai gruppi partigiani la dislocati, e in seguito ,partecipando con loro alla liberazione di Bergamo e della lombardia dal nemico tedesco e camice nere.
Vorrei parlare dei prigionieri che si sono fermati a Mozzo , che io ho visto e conosciuto.
5 di questi trovarono rifugio nell’ex cava di pietre con annesso frantoio. Questa cava era in corrispondenza con l’attuale Via Respighi, sotto la Collina Lochis, e consisteva in una galleria lunga un centinaio di metri con varie diramazioni, e una grande pozza d’acqua, che noi ragazzi chiamavamo il laghetto. Era un posto ideale per essere riparati dal freddo e dalla pioggia. Questo gruppo di ex prigionieri veniva rifocillato dalla gente della zona. Tra questi vi era un ragazzo di colore, originario del Camerun, si chiamava Andi Anania , che non usciva mai di giorno dalla galleria per non essere riconosciuto; era un ragazzone simpatico, robusto con la pelle nera. La nostra amicizia nacque proprio dal fatto che, assendo scuro di pelle, la nostra curiosità ci fece avvicinare più a lui che agli altri. Anania parlava bene la nostra lingua, essendo cresciuto e battezzato in una missione cattolica italiana. Diceva di essere stato catechista, e recitava bene anche le preghiere. Un giorno dice a Renato Battaglia, il ragazzo più grande della compagnia:« Presto io dovrò fuggire da questa galleria, ma prima vorrei conoscere un prete… voglio un prete…per confessarmi e ricevere l’Eucarestia». Renato lo tranquillizzò promettendogli che il giorno dopo avrebbe parlato con il curato, don Angelo Merelli. E come aveva promesso, Renato parla con don Angelo e combina l’ incontro con Anania, che sarebbe avvenuto di notte in casa del prete.Infatti, nella tarda serata del giorno dopo, Renato si reca alla cava dove Andi lo sta aspettando, scavalcano una siepe e costeggiando il bosco del Colle Lochis, fino alla santella della Madonna del Buon Consiglio. La casa del curato è li vicino (ora è una casa privata con il n° 7 di Via San Giov. Battista di fronte al cinema Agorà). L’incontro dura più di un’ora. Renato aspetta pazientemente fuori, seduto sul muretto.
Finito il colloquio, Andi si affaccia alla porta, era felice e allegro. Ormai si era fatta notte. La luna era alta nel cielo e i due riprendono la via del ritorno attraverso i campi, fino alla cava.
Conclude Renato; “Una cosa che non dimenticherò mai, quella notte, quando mi strinse la mano e mi ringraziò di avergli fatto incontrare il prete…Vedo ancora i suoi occhi lucidi dalla commozione, mentre il chiaro della luna illuminava la sua pelle scura…sì, anch’io ero emozionato”.
Don Angelo Merelli si recò a giorni alterni alla cava per portare la comunione ad Andi e il conforto cristiano ai prigionieri. E come tutte le cose di questa vita anche la storia (vera) di Andi Anania finì. Un giorno trovammo la grotta vuota e …dei prigionieri non abbiamo saputo più nulla.
Augurandomi che Anania sia ritornato sano e salvo in Camerun, termino con il pensiero (e perché no?!) che oggi dopo 71 anni, Anania sia un vecchio missionario; Padre Anania, ex catechista ed ex prigioniero di guerra.
Luigi Rota

(il seguito (3 puntate) pubblicato sul bollettino parrocchiale)

qui il libro

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Ricordi di una giovinezza vissuta in tempo di guerra

LA BUONA AZIONE

Erano gli anni che vanno dal 1942 al 1945. Noi ragazzi di quel tempo abbiamo avuto la sfortuna di essere cresciuti in un

periodo di guerra (niente televisione, niente biblioteca, e neanche l’oratorio).

Il nostro tempo libero tra il suono della sirena d’allarme e il cessato pericolo, lo trascorrevamo nel bosco in cerca di

“avventure”. In estate i più temerari facevano il bagno nel Riolo. La zona chiamata “ol fundù”era la nostra Rimini,

circondata da robinie al posto delle palme (ora questo posto è a fianco del Centro Sociale ricoperto in cemento, è il

tombotto).

Togliendo i grossi sassi dal fondo del Riolo, avevamo costruito una specie di piccola piscina, praticamente una grossa

buca che era sempre colma di acqua piovana, che scendeva dal monte nella zona Carpiane, e non era inquinata perché

non vi si scaricavano le acque dei pozzi neri.

Nel bosco giocavamo ai “prigionieri” Si formavano due gruppi di ragazzi; ogni gruppo aveva il suo caposquadra,

vinceva chi catturava più prigionieri. Questo gioco durava ore, perché lo spazio era enorme. I ragazzi si mimetizzavano

dietro alle frasche ed era difficile stanarli. Quando si scopriva il cespuglio o la buca dove erano nascosti, lo si

circondava e si intimava ad alta voce: «Fuori con le mani in alto!». A differenza degli adulti che facevano o subivano la

vera guerra, per noi ragazzi finiva tutto in allegria perché era solo un gioco.

Ma un pomeriggio dell’estate 1944 ecco avvenire una scoperta che ci precipità nella realtà della vita. Giocavamo come

al solito alla ricerca di un grosso cespuglio per nasconderci. Eravamo nella zona sotto la Villa Berba, ( a 200 metri dal

punto dove poi in seguito fu costruita la chiesina degli Alpini.) Dietro un folto cespuglio notiamo un passaggio

occultato da frasche. Spostiamo i rami e entriamo carponi e ci troviamo in una piccola grotta. Con sorpresa e paura

vediamo due giovani uomini sdraiati sulla paglia. Impauriti istintivamente tentiamo di tornare indietro, loro ci chiamano

e ci dicono di non aver paura:« Siamo due prigionieri di guerra, io sono greco; mi chiamo Staiko, lui è serbo, si chiama

Svoba, siamo usciti dal Campo della Grumellina e ci hanno ospitato nascosti nel fienile (fecero i nomi dei contadini;

Bonacina Giuseppe- Nava Virginio-e Bonacina Pasquale) ma per evitare una rappresaglia da parte dei tedeschi verso

queste famiglie ci siamo trasferiti nel bosco nascondendoci in questa piccola grotta».

Finì che si divenne amici, con la promessa di non parlare della loro presenza con nessun forestiero.

Dopo quell’incontro diventammo più maturi, più consapevoli, insomma più uomini. I nostri giochi continuarono, ma

non era più come prima, pur essendo ragazzi, sentivamo di avere una responsabilità verso quei due giovani. Portavamo

loro dei panini con salame e formaggio (che era la nostra merenda) un fiasco di acqua e dei fiammiferi. La cena la

portava un anziano del paese, lo vedevamo salire sul monte alla sera con la pentola della minestra nascosta nel sacco , e

per non destare sospetti era sempre accompagnato dalla sua piccola nipotina. –Ogni giorno che passava, la situazione

per i due prigionieri si faceva sempre più critica. Nelle nostre scorribande nel bosco, incontravamo di frequente persone

forestiere, alcuni con zaino; si dirigevano sul sentiero della Bagnata, altri erano in divisa e armati.Uno di questi( che io

credevo fosse un guardiacaccia, visto che aveva a tracolla un fucile da caccia) ci chiese se avevamo visto delle persone

forestiere aggirarsi nella zona; la nostra risposta fu un no deciso. Se ne andò ripetendo:« mi vedrete ancora, ricordate

che è un vostro dovere di Balilla segnalare la presenza di persone sospette!».

Arrivò l’autunno e come sempre ogni tanto si andava a far visita ai prigionieri. Ma un giorno con nostra grande sorpresa

Trovammo la grotta vuota, dei due occupanti non c’era traccia, solo due moccoli di candela incastrati nel tufo.

Pensammo che si fossero aggregati ai gruppi di partigiani che passavano sul sentiero della Bagnata, per dirigersi verso il

Canto Alto, o verso la Valle Taleggio. – Al pomeriggio dello stesso giorno, due di noi si recarono a Mozzo di Sopra per

parlare con i ragazzi della contrada San Lorenzo perché anche loro aiutavano i prigionieri nascosti nei fienili di Via San

Lorenzo portando loro pane e latte e quella mattina non li avevano più visti. Però furono tranquillizzati da alcuni adulti

che dissero loro:« Ragazzi state tranquilli che sono in un posto sicuro e in buone mani». Incontrammo il Sandrino

Locatelli, che ancora impaurito ci racconta :

« Questa mattina ero con mio padre Andrea nelle Carpiane , quando sulla strada, ( oggi Via Todeschini) si ferma una

camionetta, scendono due militari armati e si dirigono verso di noi. Quando furono vicini ci chiesero se avessimo visto

passare qualcuno in quella zona , mio padre rispose no.Uno dei militari, innervosito punta la canna del fucile al petto di

mio padre e lo spinge contro un palo della luce minacciandolo di morte se non diceva la verità. Impaurito, senza

profferire parola allargai le braccia e mi misi davanti a papà come per difenderlo. I due militari vista la scena, hanno

desistito ad interrogarci e sono tornati sui loro passi verso la camionetta che era sulla strada ad aspettarli». (ndr. Era il

26 sett. 1944-quella notte ci fu l’assalto alla Villa Masnada da parte di un gruppo di partigiani,che furono uccisi a

Petosino in un conflitto a fuoco con i tedeschi e le brigate nere.) Salutiamo il Sandrino e ritorniamo in Piazza

velocemente dove ad attenderci c’erano i nostri compagni “i piasaröi” per dare loro la buona notizia che i nostri Staiko e

Svoba erano salvi. Ci abbracciammo , formando un cerchio e dopo un attimo di silenzio…un urlo di gioia gridato da

tutti insieme: « Hurrà !», consapevoli anzi sicuri di aver fatto una buona azione.

(Il seguito di questa storia, che diventa poi tragica, sul prossimo numero.)

Luigi Rota

Ricordi di una giovinezza vissuta in tempo di guerra

LA TRISTE REALTA’

La prima parte terminava con un « Hurrà!» di gioia al pensiero che i nostri amici Staiko e Svoba

fossero in un posto sicuro e protetti: purtroppo la nostra felicità durò solo un giorno.

Il posto dato per sicuro non lo era per niente.

Nei giorni precedenti la cattura, si aggirava in paese un signore che si spacciava per un comandante

partigiano: andava di casa in casa, chiedendo ai contadini se c’erano dei prigionieri stranieri promettendo che

li avrebbe aiutati a fuggire sulle montagne. Avutane la conferma radunò tutti questi uomini in un capanno per

attrezzi alle Carpiane, con la promessa che il giorno seguente sarebbero stati accompagnati in Val Taleggio

da due partigiani. Ma grande fu la sorpresa.

Al posto dei partigiani arrivarono due pattuglie di soldati tedeschi, che con armi alla mano li fecero uscire

all’aperto e dopo aver dato fuoco al capanno li condussero in piazza della chiesa. Qui li fecero allineare

contro il muro vicino al campanile; dalla parte opposta della Piazza piazzarono una mitragliatrice per tenerli

sotto controllo, in attesa che arrivasse un camion che li avrebbero portati via.

Noi ragazzi eravamo tutti in Piazza, seduti sul marciapiedi opposto (davanti alla casa Fiorendi). Guardavamo

in faccia uno ad uno questi prigionieri cercando di vedere se c’erano i nostri due amici, Staiko e Svoba.

Purtroppo Svoba era stato catturato ed era là spalle al muro, ma Staiko non era presente, forse non l’avevano

preso, era salvo? Arrivò il camion, li fecero salire e Svoba si affacciò da una fessura del telone e ci salutò con

la mano, e noi con le lacrime agli occhi contraccambiavamo il saluto agitando le mani.

Finite le ostilità, a guerra finita, Staiko venne in paese, e andò a ringraziare i contadini che lo avevano

ospitato. Questa testimonianza è raccontata da Renato che in quel periodo (aveva 15 anni) lavorava in casa

della famiglia di Giuseppe Bonacina come aiutante nel lavoro dei campi.Dice Renato:« Una mattina arrivò

Staiko, aveva il fucile a tracolla, due bombe a mano alla cintola e un foulard rosso al collo; era allegro, ci

abbracciò tutti. Andò in casa di Pasquale Bonacina e di Virginio Nava che con tanto rischio lo avevano

tenuto nascosto nel portico, dandogli da mangiare(lui in cambio costruiva ceste di giunco). Pasquale

sorpreso, gli chiese come aveva fatto a salvarsi, e dove si era nascosto.» Rispose Staiko:« Quell’uomo che

voleva salvarci, non mi dava fiducia. Sentivo dentro di me che era un traditore. Ho cercato di convincere i

miei compagni, ma non mi diedero ascolto.Mentre loro quella sera andarono nel capanno delle Carpiane, io

salii sul monte Guzza e dormii nel capanno dei Belotti. Il mattino dopo dalla cima del monte guardando

verso le Carpiane vidi un movimento di uomini; purtroppo il mio dubbio si era avverato, quegli uomini erano

tedeschi, altro che amici salvatori!…Seguii tutta la scena, li accompagnai con lo sguardo mentre in fila

indiana scendevano da via Don Todeschini finchè scomparvero dietro la mole della grande chiesa, e non vidi

più nulla. La notte seguente mi incamminai attraverso il bosco e all’alba raggiunsi Petosino, dove incontrai

un contadino che caricava delle mucche sul camion. Bastò uno sguardo e …ci capimmo subito. Mi

disse:”Vado in Val Taleggio, vieni con me, là sarai al sicuro”, e così feci.- Ed ora eccomi qua sano e salvo in

attesa che il Comitato di Liberazione sbrighi le pratiche per il mio rimpatrio».

Conclude Renato:« Fu l’ultima volta che vidi Staiko. Spero abbia raggiunto la sua Grecia sano e salvo».

Luigi Rota